SUPERHOT – Men in Red

Va bene, va bene, mi arrendo: “SUPERHOT è lo sparatutto più innovativo che io abbia mai giocato”. Contenti?!

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Allora, per rendere ancora più chiare le cose, ogni volta che leggerete SUPERHOT dovete sapere che nella mia testa lo sento così:

SUPERHOT ha avuto una notorietà inaspettata. Non saprei dire se sia stata proporzionale al successo commerciale, ma quasi tutti hanno visto anche solo uno screenshot di “quei manichini rossi che si muovono a rallentatore”. Probabilmente l’estetica del gioco è stata l’idea più fortunata del manipolo di sviluppatori polacchi (ultimamente devo proprio ringraziare i polacchi!) che ha realizzato questo successo indie. Il contrasto tra il bianco scintillante degli interni e il rosso acceso dei nemici rimane subito impresso e riesce a spacciare quella che è stata certamente una scelta al ribasso, per risparmiare sul lungo e costoso texturizzamento, per una scelta stilosa. Diavolo, si può dire tutto dei polacchi, ma di certo sanno fare di necessità virtù. (Prego, sfogate le battute crudeli giù nei commenti).

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Ma la vera genialata è certamente l’idea di unire due generi antitetici: lo sparatutto e il puzzle. Durante le quattro ore, più o meno secche in base all’abilità, che servono per chiudere l’esperienza, bisogna risolvere una lunga serie di brevi situazioni sempre più spinose in cui dobbiamo salvarci la pelle ammazzando tutti. Il tempo scorre lentissimo, ma accelera fino a raggiungere un andamento in tempo reale quando ci muoviamo. Quindi si spara, si sciabola, si lanciano cose e si disintegrano nemici passando dallo slow motion a un’azione bella dinamica, che dà una grande soddisfazione.

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La sfida è perfetta, mai troppo difficile ma assolutamente non scontata. Ci sono livelli che bisogna ripetere un mare di volte, anche perché non esiste una soluzione che dobbiamo capire. Infatti, mantenendo in questo l’anima degli sparatutto e abbandonando uno dei lati meno creativi dei puzzle, ci sono tanti modi diversi per finire lo stesso livello. Quello che conta è che quando tutti gli uomini rossi sono andati in frantumi e il sintetizzatore vocale inizia a salmodiare (audio a inizio articolo), si prova inevitabilmente una gran goduria. Questo non è un gioco da fare tutto in un colpo, ma finito un livello, la tentazione è sempre quella di farne partire subito un altro.

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Gli sviluppatori sono stati bravi anche a costruire una bella cornice metanarrativa, innocua ma funzionale e di cui non si può dire un granché senza guastare la sorpresa, attorno a quella che ogni tanto torna a sembrare quella tech demo che in fondo è. Proprio per questo credo che il prezzo di SUPERHOT sia esagerato e consiglio caldamente di procurarselo solo sotto i cinque euri. Eppure non sarà facile trovarlo a un prezzo del genere, anche per via del grande successo della versione VR, che probabilmente deve essere il modo migliore per gustarsi questo titolo.

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In finale un’esperienza bella ma non imperdibile, un divertimento abbastanza semplice ma ben fatto, che lascia ben sperare anche per lo sviluppo del genere oltre i soliti canoni. Per anni gli FPS sono andati sempre più verso storie cinematografiche da vivere in prima persona. A partire dalla rivoluzione degli Half-Life, fino al trionfo commerciale dei Call of Duty si è arrivati alla nascita di un genere nuovo, quello degli immersive sim. Per carità, mi piacciono sempre i giochi con una bella narrazione, anzi, già che ci siamo propongo di recupeare Hardcore Henry, di cui forse bisognerebbe fare una proiezione a tarda notte down in the basement.

Nonostante tutto, però, negli ultimi tempi sta tornando grande protagonista il gameplay, come accaduto con l’ultimo DOOM. Forse a volte ci dimentichiamo che i giochi sono appunto giochi e che ogni tanto possiamo lasciar perdere storie, regie e doppiaggi e semplicemente lanciare in faccia a un nemico un posacenere mentre ne gambizziamo un altro con un fucile a pompa. Non mentite, lo troverete sempre divertente.

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