Ziggurat – Si vive una volta sola

Certo che siamo gente strana. Quando eravamo piccoli giocavamo a titoli in cui non si poteva salvare perché era così che girava il mondo: Sonic The Hedgehog, il perfido Alex Kid, ma anche i primi due GTA, sì, quelli con la visuale dall’alto, sono i titoli che mi vengono in mente subito. Però, segretamente lanciavamo maledizioni e ingiurie contro quei crudeli sviluppatori che ci costringevano sempre a ricominciare tutto dall’inizio e ricordo ancora – pur non avendo mai avuto una Play – che valore si arrivava a dare, anche dal punto di vista simbolico – a una memory card.

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Oggi invece torna di moda il permadeath, il fatto che quando si perde, si muore, bisogna ricominciare da capo. Fa parte di quel processo di reazione successivo agli anni Zero, in cui i giochi erano diventati tutti “troppo facili” e le nostre azioni non provocavano mai una conseguenza sfavorevole. Si può dire che, ora come ora, sia praticamente solo la riscoperta di questa meccanica a tenere in piedi i cosiddetti roguelike che sono il risultato della moltiplicazione permadeath x mappe generate proceduralmente. Leggermente diversi e più amati sono i roguelite, che prevedono i due fattori già citati, ma aggiungono una sensazione di progressione, attraverso upgrade che si possono conservare o, ancora più sottile, lo sbloccare upgrade che si possono poi trovare nella partita successiva, rendendoci sempre più forti, sì, ma non automaticamente all’inizio di ogni nuovo giro di giostra. Tra i titoli che abbiamo apprezzato di recente, Hand of Fate sfrutta certamente questa meccanica.

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Ziggurat è uno sparatutto roguelite. Si interpreta un mago imprigionato in una specie di dimensione labirintica, fatta di livelli generati proceduralmente. L’unico modo per sopravvivere è completare l’ultima sfida, l’ultimo boss dell’ultimo livello. Inutile dire che non ce l’ho mai fatta, ma francamente non credo che in questo genere di gioco sia davvero previsto arrivare alla fine, quello che conta, come nella più fiacca delle frasi fatte, è il viaggio. Ogni volta che si muore si ricomincia dal primo livello, ma in base a quanto buono sarà stato il tentativo di raggiungere la cima della ziggurat, si riceveranno nuove carte, che saranno gli upgrade tra i quali si può scegliere ogni volta che si sale di livello. Non solo, al raggiungimento di determinati obiettivi – ammazza duecento scheletri saltando su una gamba sola, distruggi quattromila botti di legno e così via – si sbloccano nuovi maghetti, che hanno caratteristiche peculiari e permettono di sperimentare diversi stili di gioco: si va dall’apprendista che parte sfigatissimo, ma cresce di livello più velocemente, al chierico, che ha maggiori possibilità di trovare pozioni curative ogni volta che ammazza un avversario.

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La curva di apprendimento è buona. All’inizio, come in tutti i roguelite, si muore spesso e ci vuole qualche tentativo per arrivare al secondo piano. Unendo un pizzico di fortuna a potenziamenti migliori, ottenuti sacrificando una vita dopo l’altra dei nostri fattucchieri, è possibile azzeccare il giro giusto, con le armi adatte, e avanzare che è un piacere in mappe generate a caso ma sempre in grado di rendere l’esperienza intrigante. Ovvio, non stiamo parlando di chissà quali idee sbalorditive, ma ogni volta che si gioca c’è quella sensazione che sia “la volta buona” e si dà un valore speciale a ogni balzo e a ogni combattimento. D’altra parte, il fallimento è parte del gioco e quasi non ci si aspetta neanche di poter arrivare alla fine. Una sfida davvero dura, insomma, ma assolutamente equa.

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Grande pregio del titolo è la semplicità, che non vuol dire pochezza. Si impara subito a giocare, ma, per esempio, si scopre solo dopo tanti tentativi che ogni livello nasconde una camera segreta che contiene un upgrade. L’ingresso si può trovare guardando attentamente le pareti e scoprendo il punto in cui una vistosa crepa ci indicherà di sparare con la nostra bacchetta. Ringraziatemi dopo, che devo parlare delle armi che abbiamo a disposizione. Ogni mago ha una sua bacchetta “infinita”: il mana che occorre per usarla si rigenera continuamente e, soprattutto nelle prime fasi di gioco, ha senso affidarsi in gran parte a essa. Infatti, le altre tre tipologie di arma – magia, bastone, arma da fuoco – hanno il mana contato e spesso conviene cercare di conservare queste risorse per lo scontro con il boss finale di ogni livello. Si può portare con sé soltanto un’arma per ciascun tipo e, salvo sorprese, si trova solo un’arma per livello e in modo casuale. Quindi sì, è possibile essere così sfortunati da incominciare il primo livello con bacchetta e bastone, arrivare nel secondo e trovare un altro bastone. A quel punto saranno gli stili di gioco a spingere il giocatore a preferire un’arma rispetto all’altra, dato che ciascuna ha le sue particolarità nel tipo di danno, effetti temporanei e così via.

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Il combattimento richiama i buoni vecchi sparattutto storici. Ogni volta che entreremo in una stanza nuova potrà iniziare un combattimento e a quel punto, con le porte chiuse e senza via di fuga, ci si ritrova in un’arena dove si scatta, si salta, si gira in tondo e si spara all’impazzata contro i diversi tipi di nemici che puntano ad ammazzarci con altrettante tipologie di attacco. La sfida è sempre interessante e nelle arene più grandi è impossibile non pensare a Heretic – cui il gioco è debitore anche nel design di alcuni bastoni – e a Doom. Cieli cupi, nemici volanti e proiettili colorati che ti arrivano addosso da ogni parte.

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Certo, non siamo davanti a un miracolo, ma questo titolo è riuscito sorprendentemente a tenermi incollato per molte più ore di quanto avrei mai immaginato. Io lo presi con un Humble Bundle e nel caso vi interessi consiglio davvero di aspettare, perché è il classico gioco che si può trovare a due o tre euro al momento giusto. Un po’ come One Finger Death PunchCrimsonland, questo è uno di quei giochi da tenere sempre installati per comporre un’ideale sala giochi per le pause brevi. Un gioco snack, da far partire quando non si ha il tempo o la testa per rincorrere quest, raggiungere save point troppo severi o bisogna pesare ogni azione per non guastare ore di progetti. Pesa un’inezia e le partite spesso durano un quarto d’ora o poco più. Quando si sarà presa la mano e ci si vorrà lanciare in esplorazioni epiche, sarà sempre possibile salvare in qualsiasi momento e riprendere successivamente. Inoltre, il continuo sbloccare nuovi upgrade toglie la pericolosa sensazione di inutilità che potrebbe grattare l’orecchio del giocatore al dodicesimo game over entro i primi due livelli.

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Ho installato Ziggurat a inizio febbraio, mentre mi muovevo tra titoli lunghi e impegnativi un po’ perché il gioco mi aveva incuriosito subito, un po’ perché ero convinto, come mi è già capitato più volte, di passare qualche ora al massimo con un giochino sostanzialmente insignificante per sciacquarmi la testa tra centinaia di ore di rpg e blockbuster videoludici. Un ottimo titolo per le mie videonugae, insomma. Invece sono qui che non ho intenzione di disinstallarlo e mi stupisco di come, nonostante tutto il ben di Dio che ho a disposizione, mi ritrovi coinvolto ogni volta che cerco di scappare dalla ziggurat. Non una perla, ma un bel topazio nascosto, che conclude benissimo l’alfabeto della mia libreria.

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